Mamma Roma tra i bambini della savana: «Ho lasciato il mio ristorante in centro per far dare un futuro a chi non lo aveva»

Mamma Roma tra i bambini della savana: «Ho lasciato il mio ristorante in centro per far dare un futuro a chi non lo aveva»
di Alessandro Di Giacomo
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Domenica 16 Marzo 2014, 16:36 - Ultimo aggiornamento: 19 Marzo, 16:05
Non sempre la forza di una persona si misura con la sua stazza. Simona Sabbatini una minuta signora romana cinquantenne che pesa meno di 50 kg, ma sprigiona energia e determinazione sufficienti per spostare una montagna.

La sua storia parte una quindicina di anni fa. Arriva in Kenya per la prima volta nel 2000 per una vacanza, portata dal marito Italo Cipriani che già conosce l’Africa. L’innamoramento di Simona per l’Equatore è immediato e da allora iniziano a tornare sempre più spesso, dapprima per turismo, poi pian piano tentando di integrarsi sempre di più col territorio.



Impegnata nel volontariato anche in Italia, a Simona appare scontato iniziare a dedicarsi agli svantaggiati della zona. Come spesso accade le prime esperienze non sono positive, tuttavia non molla. Fu così che nel 2004 (insieme al marito e agli amici Mariangela Alterini, Francesco Ciarapica, Andrea Guercini, Tiziana Sansolini e Marzia Serrai) fondano in Italia l’onlus Watoto Kenya con l’idea di dare vita ad un progetto per i bambini nuovo ed originale che miri alla sostenibilità finale, quindi oltre la “normale” assistenza.



“Nel 2006 –racconta- la grande decisione della nostra vita: considerando che i nostri 4 figli erano già grandi ed avviati per la loro vita, decidiamo di vendere il nostro noto ristorante nel centro di Roma e trasferirci in Kenya per fare di Watoto una realtà concreta”.

Lasciano quindi tutto, con un futuro incerto ma con idee chiare. Simona, che in passato ha lavorato in diversi ambiti professionali, ha già pianificato tutto.



Ma come è iniziato tutto? “Innanzitutto, studiando per capire le reali necessità di questa gente, per evitare al massimo le improvvisazioni. Subito l’idea è stata di elaborare un programma di assistenza e formazione per accompagnare la popolazione verso un’autonomia sociale ed economica. Non volevano fare carità, ma creare una coscienza costruttiva, convincerli di poter investire su loro stessi”.



Quasi ogni giorno, insieme alle jeep dei turisti, sulla strada sterrata dalla costa al Parco dello Tsavo Est, Simona percorre con un pick-up i 50 km che dividono la sua casa da Makobeni, la località dove scelsero di lavorare. Una zona semiarida, dove capita che non piova per anni: “Individuammo il posto dove sarebbe sorto il progetto di Watoto Kenya per caso. Un’amica dei nostri figli era in vacanza con noi, appassionata di fotografia voleva immortalare un Kenya diverso dalla costa turistica. Arrivò qui con una guida, intercettò questa realtà durissima dove più del 50% della popolazione non ha la certezza del pasto quotidiano e da lì è nato poi tutto”.



Per arrivare a Makobeni il percorso è talmente duro che ormai Simona deve guidare con un collarino ortopedico e un busto perché la sua schiena ha “ceduto” al disagio della strada, ma la sua volontà resta ferrea. Oggi a Makobeni c’è un centro attrezzato con presidio medico, refettorio, dormitori e bagni, sala ludica, biblioteca, negozio, laboratori per l’artigianato, un piccolo allevamento di polli e conigli, una vasca per il pesce e mucche da latte. Simona sostiene di essere una pragmatica con zero creatività, ma per quanto spartano sia il centro, Watoto Kenya ha invece dimostrato grandi capacità visionarie.

Come in quasi tutta l’Africa, dapprima il problema fu l’acqua. Simona e i suoi decidono di chiedere alle Autorità una deviazione dell’acquedotto pubblico fino a Makobeni. L’ottengono ed anche da quel primo passo ora sono un riferimento per una comunità di circa 2.000 abitanti.



“Iniziammo - ricorda Simona - con l’incontrare le diverse autorità della zona. Volevamo fare qualcosa per gli ultimi tra gli ultimi, così decidemmo che avremmo selezionato insieme i primi 50 bambini piu bisognosi, dividendoli in 4 fasce di età per seguirli al meglio. Non solo con l’assistenza, ma soprattutto mirando al concetto di sviluppo affinché il loro sapere diventasse nel tempo ricchezza per la comunità”. Coinvolgimento è la parola magica. Simona sostiene infatti che Watoto ha bisogno di amici prima che di soldi, poiché dai primi scaturiscono le idee che portano al sostentamento.



Dal centro sono passati tanti ragazzi, 37 dei quali sono arrivati al livello massimo di studi ed oggi sono quasi tutti impegnati nella zona: “Watoto non mira al solo conseguimento del titolo di studio, ma ha contribuito alla nascita di un loro trust che si occupa di reinvestire nella comunità locale quello che ricavano dalle professioni che intraprendono. L’obiettivo è insegnare un mestiere ed una professione che valorizzi le loro attitudini, reinserendoli nel tessuto sociale originario con la capacità di migliorare la vita intorno a loro”.



“Non si ottengono risultati togliendo i bambini dalle loro famiglie quindi abbiamo progetti di assistenza domiciliare e solo quando ciò è impossibile si ospitano nell’orfanotrio dove però I piccoli debbono poter ritrovare la tranquillità e il calore di una famiglia. I nostri tutori, i nostri “Papà” e “Mamma” che insegnano e dormono tra loro non portano divise, sono tra loro come loro. I ragazzi debbono sentirci vicini, non autoritari”.



Gli inizi non furono facili: “E’ più facile essere ascoltati che accettati. Ricordo che l’assistente del Prefetto mi fece parlare per ore prima di proferire una parola. Pensavo che il nostro progetto non lo interessasse, poi invece mi esortò a metterlo in pratica. D’altronde è facile capire perchè: noi non facciamo carità o assitenza, ma insistiamo sulla sostenibilità dell’iniziativa e di conseguenza sulla popolazione tramite la dignità del lavoro. Il nostro pieno successo sarebbe poter andar via, lasciando una comunità indipendente e capace di sostenersi”. Come in parte già inizia lentamente ad accadere. Oggi dai laboratori artigianali di Makobeni escono per il loro negozio a Malindi scarpe, borse, accessori ed altro per i turisti, anche se ancora molta strada c’è da fare per raggiungere l’indipendenza economica.



Nessun pentimento “Sono felice di aver regalato questi 10 anni di vita al Kenya. Ho fatto qualcosa per loro, ma soprattutto per me. Oggi sono certa di sapere cosa sia importante sul serio nella vita. Quello che ho avuto qui non mi ha mai fatto pentire di aver lasciato le nostre attività di Roma. I nostri figli ci sono vicini, ci aiutano da lontano, ognuno a modo suo, ma tutti con la stessa convinzione che stiamo facendo la cosa giusta. Un grande riconoscimento personale che peraltro è anche istituzionale –afferma orgogliosa Simona- perché ormai Watoto Kenya è riconosciuto dai Ministeri locali dell’Agricoltura per i progetti rurali, dall’Istruzione per l’assistenza scolastica, della Sanità per cultura della prevenzione e dell’igiene, dal Dipartimento dell’Infanzia per l’assistenza”.



Gli italiani in Kenya sono molti “ma ho pochissime relazioni, perché a sera arrivo distrutta. Gli italiani di qui sono tuttavia una risorsa importante, anche perché con generosità sostengono il nostro piccolo negozio di Malindi”. Poi la dedica finale: "Devo tanto a mio marito".